«Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? e perché non è teco?»
Guido Cavalcanti, il poeta della leggerezza e della dottrina d’amore
Nella sesta giornata del Decameron di Boccaccio vengono celebrate le risposte argute e le battute di spirito; tra i numerosi artefici dell’arte della parola (Cisti fornaio, Chichibìo e Frate Cipolla) c’è spazio per un protagonista d’eccezione: Guido Cavalcanti, forse uno dei poeti più ammirati e affascinanti della sua generazione. L’immagine visuale che Boccaccio consegna al patrimonio evocativo della tradizione letteraria italiana è quella di un uomo contraddistinto dal dono dell’agilità, capace di librarsi con un salto “sì come colui che leggerissimo era”.
Secoli dopo, nelle Lezioni americane, Calvino ripropone la stessa immagine di Boccaccio e immortala “l’agile salto del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte”.
Ed è proprio la leggerezza l’attributo che più di tutti contribuisce a rendere ineguagliabili i versi di Guido Cavalcanti, il grande ingegno fiorentino ammirato da Dante, il filosofo capace di coniugare le dottrine d’amore della cultura araba con quella della tradizione occidentale, il “grande assente” della Commedia, il poeta – appunto – della leggerezza.